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« Ha sbagliato, deve pagare », « se sacrifico qualcosa, in cambio... »: c'è una ragionevole follia nell'umano che contabilizza la giustizia, terrena e non. E questo accade da sempre. Sia il sacrificio umano sia il capro espiatorio, di cui il primo rappresenta una sorta di estrema esasperazione, costituiscono autentiche « follie antropologiche » che tuttavia rivelano, come spesso accade quando ci si confronta con gli aspetti più profondi ed estremi dell'esperienza umana, una loro irriducibile ragionevolezza.
Ma se nel giudicare si segue la vendetta o la bilancia, dove si arriva? Per tentare di comprendere il senso di simili follie è necessario risalire al primato dell'economico che è all'origine della pulsione sacrificale, che non a caso ha sempre contaminato esperienze religiose e pratiche della giustizia. E lo ha fatto rivestendosi di sembianze, spesso rispettabili e accattivanti, diverse all'apparenza, ma sempre uguali nel servirsi delle « logiche follie » punitive per un perenne esercizio di autoinganno.
Aumentare la pena fa davvero diminuire il reato? Sacrificare una vita in cambio di altro può essere ragionevole? Eppure specchiandosi nell'ombra delle sue carceri e delle sue pene, legali o sociali, ogni epoca può conquistare una speranza di verità. Fosse anche soltanto quella della smorfia sul volto che si ritrae dalla luce, per dirla con Franz Kafka. Uno stimolante studio di un filosofo-antropologo e un giurista sull'intricato intreccio tra economia, religiosità e giustizia.