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Uno sguardo distratto al televisore, casualmente sintonizzato su un documentario dedicato alla Francia di Vichy, ai collaborazionisti, ai rastrellamenti della Gestapo. Improvvisa, inattesa, inaudita, appare un'immagine di Marsiglia, del palazzo dove lo scrittore è nato e cresciuto, di suo padre ammanettato e portato via da due agenti nazisti. Sette brevi secondi che cambiano tutto quello che si era pensato fino a quel momento.
Da questo frammento, inverosimile e impossibile, ha origine la discesa di Régis Jauffret nell'abisso insondabile della vita di suo padre. Chi era Alfred Jauffret? Perché gli è così sconosciuto? Perché di quell'uomo rinchiuso nella sua sordità e nella sua bipolarità non ha mai saputo niente? Da cosa nasce questa sua « sete di un padre »? E allora eccolo tessere, smontare, rappezzare i pochi elementi che ha per costruire il suo « papà », parola insieme tenera e spaventosa, facendoci sprofondare come in ogni suo scritto nei magnifici e terrificanti labirinti di ciò che si è veramente, di ciò che non si vuole dire, di ciò che si cerca di nascondere, anche a se stessi.
Di ciò che significa scrivere, creare, rimodellare e inventare la realtà. Un inestricabile groviglio di ricordi e di fantasmi, di vero e di falso, di voluto e di negato, di indicibile e di inaccettabile, di sperato e di irrimediabile. Come il Philip Roth di Operazione Shylock, come l'Heinrich Böll di Foto di gruppo con signora, come il Jerome David Salinger di Alzate l'architrave, carpentieri: uno scivolare cercando di aggrapparsi, violentemente attratti da quel buio nel quale si sa esserci forse una qualche verità che ci è inspiegabilmente eppure anche inevitabilmente necessaria.